Le perle nere di Kella

Written By: bruno - Lug• 25•20

Giulia Tofana è considerata la più famosa avvelenatrice seriale del Seicento, ma per alcune sue contemporanee fu probabilmente solo colei che seppe offrire una via di fuga da un matrimonio infelice o sgradito Nei secoli XVI e XVII, infatti, la condizione femminile era di forte subordinazione all’autorità maschile. E se nelle classi meno privilegiate le donne spesso lavoravano per integrare il magro bilancio familiare, nei ceti abbienti e nell’aristocrazia esse dipendevano anche economicamente dagli uomini, ed il matrimonio rappresentava l’unica scelta socialmente accettabile, a parte quella del convento. Vittime di matrimoni combinati con coniugi molto più anziani, impossibilitate a ricorrere al divorzio, in casi estremi le donne, spinte vuoi dalla disperazione, vuoi dal calcolo, cercavano di sbarazzarsi di un consorte indesiderato o violento in modo criminoso. È in questo contesto storico che Giulia Tofana visse e morì tragicamente. Era “ Figlia d’Arte” di Thofania d’Adamo, giustiziata il 12 luglio del 1633, con l’accusa di avvelenamento del marito Francesco. E così, orfana e priva di mezzi, ma dotata di bellezza e intelligenza, dopo aver venduto il suo corpo per sopravvivere, nel 1640 la giovane Giulia decise di mettere a frutto le proprie competenze e giunse alla creazione dell’acqua tofana, detta anche “acqua tufanica”, “acqua di Napoli”, oppure “Manna di San Nicola”, era una pozione velenosa che le fonti descrivono come insapore, incolore ed inodore. Della miscela sono noti gli elementi chimici: arsenico, piombo e forse belladonna, ma non le proporzioni. La mistura letale poteva essere propinata alle ignare vittime durante i pasti senza destare sospetti. La pozione ideale per un delitto perfetto, insomma. Era essenziale, tuttavia, somministrare il veleno quotidianamente a piccole dosi, affinché la vittima morisse solo dopo alcuni giorni e non in modo fulminante. Sull’acqua tofana Giulia costruì la sua fortuna, ma il “salto di qualità” della sua attività fu tuttavia casuale, e forse dovuto ad un passo falso, che rischiò di farla cadere nelle maglie dell’Inquisizione. Fatto sta che ad un certo punto Giulia abbandonò in fretta e furia Palermo, e insieme alla figlia Girolama Spera aiutata da un tal fra Girolamo, di cui era nel frattempo diventata l’amante, partì alla volta di Roma. La Tofana prese alloggio a spese dell’amante in una bella dimora nel rione Trastevere e, adattabile e brillante com’era, provò a lasciarsi alle spalle il passato: adesso indossava abiti raffinati, migliorava il suo linguaggio, ampliava la cerchia di amicizie. Fu probabilmente durante la conversazione con un’amica romana che l’astuta cortigiana intravide la possibilità di un rilancio dei propri traffici palermitani. Forse l’amica di un’amica, imprigionata in un matrimonio indesiderato, le fornì involontariamente lo spunto ed ecco che Giulia, improvvisatasi imprenditrice, offrì la soluzione per disfarsi del consorte, in un modo semplice ed efficace, ma costoso Procurarsi le erbe per la pozione non fu difficile, con un parente del suo amante frate speziale alla Minerva; il successo fu immediato, e in breve tempo Giulia mise su un piccolo impero, divenendo ricchissima. La vita di Giulia a Roma scorse senza grandi scossoni per circa un ventennio fino alla nuova svolta, fatale: una moglie pentita fece il nome della venditrice da cui aveva acquistato il veleno, e la Tofana fu denunciata per tentato omicidio. Giulia fu catturata e, sotto tortura, rivelò di aver venduto, veleno sufficiente a uccidere circa 600 uomini, tra il 1633 ed il 1651. Nel 1659 la Tofana, giudicata colpevole, fu giustiziata a Campo de’ Fiori insieme alla figlia Girolama, agli apprendisti e a un certo numero di mogli accusate di aver avvelenato i mariti, che furono murate vive a Porta Cavalleggeri, nel palazzo dell’Inquisizione.

Kella Tribi.

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